Diritti civili in generale Diritti e libertà nella Costituzione

Il Codice Casaleggio e la nullità della clausola penale che vincola i candidati eletti alla linea di partito.

Si discute in questi giorni sulla opportunità o meno di una norma interna stabilita dal Movimento Cinque Stelle secondo la quale chi si candida alle elezioni comunali di Roma per quel Movimento deve accettare e sottoscrivere un codice etico, detto “Codice Casaleggio” per il nome del suo ideatore, in cui sono indicate norme di comportamento vincolanti per chi dovesse essere eletto.

Fra queste regole ce n’è una particolarmente importante e, a nostro avviso, particolarmente illegittima, che prescrive una penale di 150.000 euro nel caso che l’eletto dovesse violare la linea politica del Movimento votando in modo diverso da quanto stabilito dalla direzione ovvero cambiando gruppo politico di appartenenza in caso di disaccordo con il Movimento stesso.

I Pentastellati hanno già dichiarato [1]  che tale clausola, prevista ora per le elezioni comunali, si estenderà anche ad ogni altra assemblea elettiva quali i Consigli Regionali e lo stesso Parlamento titolare del potere legislativo. E ciò, dal loro punto di vista, appare sicuramente coerente.

La clausola, che in quanto accettata e sottoscritta diventa “patto” tra le parti, è gravemente illegale perché contrasta con il principio previsto dall’art.67 della Costituzione secondo cui i rappresentati eletti esercitano la loro funzione “senza vincolo di mandato”.

Vale la pena di ricordare che i Padri Costituenti stabilirono questa regola, peraltro diffusa e pacifica già da tempo nelle altre Costituzioni Europee  [2], per garantire al massimo la libertà di espressione dei rappresentanti eletti e svincolarli da qualsiasi eccesso nel rapporto di subordinazione con le strutture gerarchiche del partito. Essi temevano e volevano evitare che la persona eletta caratterizzasse la sua attività come mero esecutore di ordini altrui con ciò contravvenendo alla prima regola della democrazia secondo cui i rappresentanti del popolo, cui è affidata direttamente la cura del pubblico interesse e il progresso civile della società, devono essere liberi e non condizionabili da prospettive di sanzioni espulsive od anche, come in questo caso, pesantemente economiche.

Ora va detto che la pur doverosa fedeltà al partito non può spingersi fino al punto da ingabbiare un rappresentante eletto nel momento in cui serie obbiezioni gli impongono di dissentire dalle scelte della gerarchia del partito medesimo. Non si dimentichi che gli appartenenti alle assemblee elettive votano su questioni decisive per la vita del paese, per i diritti più sensibili e le libertà dei cittadini, votano sulle proposte legislative del governo e su ogni altra norma giuridica espressione del potere legislativo che è la massima espressione del potere pubblico. Sotto questo profilo ad essi devono essere garantiti libertà di opinione e pieno esercizio dei diritti politici.

Resta fermo che il politico disinvolto od opportunista risponderà ugualmente del suo operato, ove questo sia palesemente ingiustificato, ma ne risponderà in sede di responsabilità politica agli elettori e non certo di responsabilità contrattuale.

Quale è dunque la sorte di questo patto illegittimo imposto dalle regole pentastellate?

Non vi è dubbio, a nostro avviso, che questo patto è nullo fin dall’origine perché in contrasto con la norma imperativa di cui al citato art. 67 della Costituzione con la conseguenza che esso non produrrà alcun effetto (“quod nullum est nullum producit effectum”). La nullità è sancita dallo stesso codice civile che infatti all’art. 1418 stabilisce che ogni patto è nullo quando è contrario a norme imperative.

L’evidente nullità comporta ovviamente che il Tribunale a cui si rivolgesse la Gerarchia per recuperare coattivamente la penale di 150.000 euro che il politico rifiutasse di pagare, non potrebbe che dichiarare illegittima la pretesa perché fondata su un patto nullo per evidente contrarietà alla norma costituzionale non derogabile. Ed essendo la questione più che evidente il Tribunale non potrà non condannare alle spese di lite la parte attorea che avesse preteso l’osservanza del patto nullo.

Si tratta dunque di un patto che non potrà essere messo in esecuzione e che pertanto non vale nulla in termini di effettiva operatività.

Va notato che la regola della penale economica viene giustificata dall’intento di evitare voltafaccia, opportunismi e trasformismi degli eletti ma, evidentemente, non ci si rende conto che siffatti intenti non possono essere perseguiti con strumenti illegittimi quale è quello inopinatamente predisposto dalla Gerarchia del Movimento. Sul punto, come si è detto, valgono la responsabilità politica di cui in ogni caso si dovrà dimostrare la sussistenza (si pensi al caso in cui il dissenso è doveroso rispetto a scelte irragionevoli o illegali fatte dalle gerarchie dei partiti).

Il paradosso peraltro è che la regola, lungi dal contrastare la c.d. partitocrazia che i Pentastellati dichiarano ad ogni passo di voler abbattere, in effetti la rafforzano e la blindano laddove partitocrazia non può significare altro che prepotente prevalenza dei dettami del partito sulle scelte, beninteso serie e motivate, dei singoli. Questa regola della pesante sanzione economica nel caso di dissenso ne è la più limpida dimostrazione.

Avv. Ernesto Mancini – 7 giugno 2016

[1] Si veda, tra le altre, intervista a Otto e Mezzo in data 9.2.2016 della onorevole Lombardi del Movimento Cinque Stelle

[2] «……, il vincolo di mandato c’è solo in Portogallo, Bangladesh e India» di Emilio Patta su il Sole 24 ore del 4 marzo 2013-http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-03-04/costituzionalisti-problema-politico-vincolo-122205.shtml?uuid=Abu8ePaH

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Pubblicato il: 7 Giugno 2016

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